In tanti stiamo avendo modo di notare ed irridere i toni entusiastici completamente fuori dalle righe che sui media italiani stanno accompagnando, pressoché senza eccezioni, la proclamazione di Mario Draghi a Presidente del Consiglio. Il discorso pubblico italiano è percorso da un’onda di eccitazione generale, mentre la figura di Mario Draghi è circondata da un’aureola di narrazioni apologetiche, con i tratti dell’agiografia e dell’epica eroica, in una mobilitazione di tutte le possibili tecniche di adulazione disponibili nell’armamentario della letteratura cortigiana. Munito della cornucopia magica del recovery fund, Mario Draghi viene rappresentato come un eroe predestinato, con il potere magico di garantire la futura prosperità economica degli italiani.
Uno spettacolo imbarazzante, che denota ancora una volta la tragica inadeguatezza culturale del mondo giornalistico italiano a svolgere un ruolo di presidio democratico, o quantomeno razionale, soggetto come è al richiamo delle mitologie e dei rituali della imparzialità istituzionale, al valore trascendente dell’unità nazionale, alla piaggeria verso le istituzioni che incarnano il nucleo duro, indiviso, di un potere statale che si perpetua e rappresenta come aldilà delle contrapposizioni politiche di parte.
L’operazione Draghi, si avvale della mobilitazione, tipica del discorso istituzionale “super partes”, dei significanti vuoti attorno ai quali si mobilita la retorica del potere statale, mettendo in moto la macchina mitologica attraverso cui si legittimano le forme date del potere costituito.
In questo contesto, significante vuoto per eccellenza è la Nazione, in quanto istanza unitaria, univoca, che in nome di una collettività rifondata quotidianamente attraverso una inesauribile mitografia identitaria, si incarna nel potere statale, nella presunta imparzialità delle istituzioni pre-democratiche dello Stato: esercito, polizia, magistratura, burocrazia ministeriale, e così via sino al rappresentante simbolico dell’istanza sovrana, che in vece del monarca ereditario tipico dello Stato moderno è rappresentato dal Presidente della Repubblica, vero deus ex machina dell’avvento messianico di Mario Draghi.
La macchina mitologica nazionalista rappresenta uno spazio politico omogeneo, concorde, pacifico, immodificabile, al di fuori dalla Storia, che si contrappone a una realtà sociale e politica inevitabilmente soggetta alla faticosa quotidianità dei conflitti tra interessi e ideologie contrastanti, alla precarietà e alla dolorosa imperfezione del divenire storico.
Nella rappresentazione mediatica italiana, è comune la mimesi giornalistica di un punto di vista “al di sopra delle parti”, che dall’alto del vertice istituzionale della Nazione rappresenta gli interessi particolari (gli interessi altrui) come esempi di grettezza, cecità, ignoranza, egoismo, stupidità, di fronte a un bene generale che si esprime al di fuori dell’agone politico, e del confronto democratico, e viene definito negli spazi di elezione di una élite di “competenti”.
Questo discorso è duplicemente antidemocratico, in quanto 1) disconosce il fondamento sociale su cui si basa la dialettica parlamentare, e 2) nega la premessa di eguaglianza dei cittadini nella capacità di esprimere e curare i propri interessi individuali, che è alla base della sovranità popolare.
Il fondamento sociale della dialettica parlamentare
Le istituzioni della odierna democrazia rappresentativa partono dalla costatazione della irriducibile diversità e incomponibilità degli interessi sociali e delle differenti idee di società, all’interno di una tradizione politica che trae dalle guerre civili e rivoluzioni della età moderna un insegnamento volto a neutralizzare l’istanza monocratica del potere statale, incarnato nella monarchia assoluta, attraverso la divisione dei poteri e il principio della rappresentanza elettorale della pluralità del corpo sociale.
La dialettica elettorale e parlamentare, è una forma di mediazione simbolica dell’inevitabile conflitto tra gli interessi incomponibili della società, che si trovano inevitabilmente in conflitto nelle scelte di parte che ogni singola decisione politica finisce con l’imporre. Come scrisse Elias Canetti, le elezioni democratiche sono da intendersi come una simulazione di guerra civile, nella quale si presuppone che le forze politiche in campo in grado di aggregare maggiori consensi siano quelle dotate di forza maggiore, mentre le garanzie di agibilità politica alle opposizioni garantiscono che la parte soccombente non sia costretta a ricorrere alla violenza reale, invece di quella figurata del confronto parlamentare, per sopravvivere.
La mitologia di un unico interesse nazionale sommerge la pluralità e il contrasto degli interessi inevitabilmente espressi in una società complessa, dietro un unanimismo che da sempre i movimenti popolari, democratici e socialisti, denunciano per quello che è: un gioco di prestigio delle classi dirigenti. È inevitabile che, coperti dal velo dell’”interesse nazionale” saranno solo alcuni interessi di parte, a scapito di altri, ad essere tutelati: gli interessi della classe dominante.
Dietro il velo dell’interesse nazionale, si nascondono quegli spazi che le forze a presidio del nucleo antidemocratico del potere statale ritengono interdetti alla volontà popolare, come per esempio, nell’Italia odierna, le scelte politiche fondamentali sulla collocazione dello Stato nel sistema internazionale.
La vaghezza del discorso pubblico, e la totale indistinzione dell’arco politico parlamentare che oggi sostiene Draghi, accomunata in un’unica gigantesca maggioranza praticamente priva di reale opposizione politica, rende impossibile esprimere la basilare realtà politica del fatto che esistano interessi contrapposti nella società, idee diverse di come la società dovrebbe essere; offusca i puntuali interessi di parte che l’attuale maggioranza politica intende tutelare, svuotando di senso qualsiasi dialettica della politica rappresentativa. Sotto la retorica mortifera della “concordia nazionale”, insomma, si nasconde lo svuotamento delle istituzioni democratiche. Un processo d’altra parte non nuovo, e che trova il proprio corrispettivo in partiti politici che replicano, ognuno da par suo, una retorica unanimistica vuota, che evita il più possibile l’identificazione con interessi specifici di una parte della società, evocando continuamente i fantasmatici simboli della nazione unica e indivisa.
La negazione della uguaglianza dei cittadini nell’esercizio dei diritti politici
A ulteriore giustificazione del discorso implicitamente antidemocratico incarnato nell’unanimismo della nazione, viene mobilitato un ulteriore significante vuoto, quello della “competenza”. La competenza, non meglio specificata, e quindi ridotta a una generica conoscenza e capacità di agire, è autonomizzata dagli obiettivi su cui dovrebbe esercitarsi, dalle azioni in cui dovrebbe esplicarsi, dai valori su cui dovrebbe misurarsi, dagli interessi che dovrebbe tutelare, dal sistema in cui dovrebbe integrarsi, per diventare puro capitale reputazionale, circolante in ambienti che, a loro volta, dispongono di un proprio capitale reputazionale tale da potere rilasciare patenti di competenza. I criteri attraverso cui si rilasciano le patenti di competenza sono posti al di fuori del discorso pubblico, e vengono considerati aldilà della comprensione e della capacità di espressione dei “non competenti”. D’altra parte, i contenuti politici che questa competenza dovrebbe sostanziare, sono posti al di fuori del dibattito pubblico, in quanto inattingibili al “non competente”.
Il nocciolo antidemocratico di questo discorso, è nel totale rifiuto della eguaglianza dei cittadini che presuppone, nella implicita prevaricazione della volontà delle persone che vengono dichiarate “non competenti” a prendere parte a decisioni inerenti la propria vita.
Il senso della democrazia, è quello per cui ogni cittadino dotato di diritti politici è considerato implicitamente la persona più competente a decidere per sé stessa cosa è bene e cosa è male. Non c’è “esperto” che possa vantare maggiore competenza del singolo individuo in merito a sé stesso, ai propri interessi, alle proprie idee, alle proprie scelte di vita. D’altra parte, affinché ogni cittadino sia dotato delle competenze basilari per esercitare appieno la propria cittadinanza, esiste un percorso obbligatorio di educazione pubblica.
Il discorso sulla “competenza” (o i vari altri sinonimi di questo significante vuoto, come per esempio il “merito”) svuota di senso il presupposto egualitario della democrazia, decretando l’inferiorizzazione di tutti quei cittadini che sono definiti “non competenti”, e pertanto incapaci di intendere e di volere, infantilizzati, e sostanzialmente decurtati dei propri diritti di cittadinanza. La svalutazione del percorso educativo pubblico, è parte integrante di questa politica dell’inferiorizzazione.
Nulla di nuovo, quella che vediamo dispiegarsi è la sempiterna logica del discorso aristocratico, in quanto discorso inteso a giustificare un governo dei “migliori”, e in quanto discorso antipopolare, inteso a rappresentare il popolo come plebaglia, ricettacolo informe e volubile di pulsioni irrazionali, ignorante, pericoloso per sé stesso e per gli altri.
Questo discorso, d’altra parte, si replica in piccolo anche nella rappresentazione del rapporto tra “tecnico” e compagini politiche parlamentari destinate (volenti o nolenti) a sostenerlo. Mario Draghi viene presentato come l’”adulto nella stanza” dinnanzi alle pretese infantili ed egoistiche delle differenti parti politiche, le inevitabili polemiche e divergenze di vedute che tempesteranno il percorso politico della enorme ammucchiata che sostiene Draghi, saranno inevitabilmente rappresentate sotto questa luce. Ma l’infantilizzazione dei rappresentanti politici è una infantilizzazione del popolo che rappresentano.
L’attuale pervasività di questa retorica infantilizzante verso la massa dei cittadini, delegittimante verso la sovranità popolare, irrisoria verso ogni espressione di legittimi interessi politici di parte, è decisamente preoccupante, la sua diffusione di massa denota il disorientamento collettivo, la falsa coscienza di un’ampia parte della popolazione rispetto alla propria posizione sociale, che la spinge a replicare come fossero propri discorsi costruiti per giustificare la sua stessa esclusione dalla vita pubblica e dai processi decisionali.
Conclusione
La invocazione messianica di una figura come Mario Draghi, denota dunque ancora una volta lo scarsissimo senso della democrazia della stampa italiana (e sarda), sempre pronta a lanciarsi nelle mani dell’uomo della provvidenza di turno, sostenuto da un blocco nazionale appositamente costituito.
L’avvento di Draghi, rappresenta anche il provincialismo e la schematicità del punto di vista mimetico, schiacciato sulla testa delle istituzioni “super partes” del giornalista politico italiano medio: forte infatti della sua elevazione ai massimi gradi delle istituzioni tecnocratiche europee, Draghi risulta incarnare in maniera superlativa la figura del rappresentante istituzionale aldilà del conflitto politico, ed è allo stesso tempo il massimo detentore di quel capitale reputazionale che ne certifica la competenza generica in materia di governo dell’economia. Che il suo essere parte di una élite tecnocratica internazionale possa renderlo garante di interessi altri rispetti a quello del popolo che andrà a rappresentare, come già ampiamente dimostrato durante la crisi del 2011, che la sua competenza possa essere funzionale a obiettivi politici deleteri per ampie parti della popolazione, come di fatto è stato e sarà, è oggi praticamente escluso dalla narrazione pubblica.
D’altra parte, il meccanismo di adulazione ed encomio generale verso la nuova figura messianica di “salvatore della patria”, sarà destinato ben presto ad esaurirsi di fronte alla cruda realtà delle scelte politiche fissate nei provvedimenti di legge votati dal parlamento. Ammantata di retorica aristocratica, la canea della élite mediatica non fa che replicare in maniera frenetica i cicli deplorevoli della passione irrazionale che da sempre, e oggi con particolare veemenza, imputa alla “plebaglia”. La promessa di prosperità economica, di generale distribuzione di ricchezza attraverso la cornucopia magica del recovery fund cui viene legata l’entusiastica accettazione del governo Draghi, si basa su un atto di fede cieca, completamente alieno ai dati della realtà, e alle precise posizioni in merito di politica economica espresse nel tempo da Mario Draghi. Quando emergeranno le inevitabili ripercussioni traumatiche di quel percorso di “distruzione creativa” delle forze economiche produttive che si intende perseguire, dei territori mobilitati per valorizzare i capitali che verranno investiti, riemergerà gioco forza anche quella dialettica politica che oggi si tenta di sterilizzare.
Il fuoco di fila di affermazioni entusiastiche, la macchina mitologica dell’unità nazionale, l’infantilizzazione dei rappresentanti politici e del popolo sovrano dinnanzi alla competenza del super-tecnico, per l’intanto, disinnescano preventivamente le inevitabili tensioni politiche future, esorcizzandole, e piegando il discorso pubblico politico, ancora una volta, alla dimensione univoca dei percorsi obbligati con cui da 30 anni si impone la continua ristrutturazione neoliberista della società italiana, crisi dopo crisi dopo crisi, tecnico dopo tecnico dopo tecnico, “riforma strutturale” dopo “riforma strutturale”.
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