Anche quest’anno, come ogni anno dal 2005, si è celebrata in tutta Italia la ricorrenza istituzionale del cosiddetto “Giorno del ricordo”, celebrato, secondo la legge istitutiva “al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale”. Come ogni anno, la forza del discorso apodittico delle istituzioni legittima una narrazione storica mistificante, quando non palesemente falsificatrice, tutta tesa a costruire un quadro vittimistico e neonazionalista della “vicenda del confine orientale”, la cui complessità viene oltremodo banalizzata.
Attraverso l’istituzione di una ricorrenza civile, la narrazione storica di parte dei neofascisti e dei neoirredentisti, completamente screditata sul piano storiografico, è diventata senso comune trasmesso a reti unificate su tutti i media statali e locali, vidimata da decine di iniziative istituzionali ad ogni livello, fino nei comuni più piccoli, nelle scuole, nelle piccole biblioteche, e così via, in uno stillicidio di iniziative tanto rituali e poco sentite, quanto dominate da una sconcertante banalizzazione e mistificazione della memoria storica. Ogni tentativo di problematizzare questa narrazione, mettendola di fronte alle evidenze della documentazione storiografica, è normalmente soggetto a un fuoco di fila di affermazioni indignate, che tacciano il responsabile di “negazionismo” e di mancanza di rispetto verso le vittime delle foibe. Ultimo a subire questo trattamento, è stato lo storico Eric Gobetti, studioso serio della “complessa vicenda del confine orientale”, che nel suo ultimo libro “E allora le foibe?” mette in fila tutte le mistificazioni storiche che si condensano ogni 10 febbraio come verità di Stato, e inquinano irrimediabilmente il dibattito storico italiano.
L’accusa di negazionismo, echeggia consapevolmente le ben più serie e fondate questioni inerenti il tentativo di parte neofascista di negare o ridimensionare la verità storica sul genocidio degli ebrei, dei rom, e lo sterminio di innumerevoli altre persone da parte dei nazi-fascisti. La differenza, è che ad essere accusati di negazionismo, in questo caso, sono gli storiografi che utilizzano criteri di studio scientifico delle fonti documentali, mentre ad accusare con più foga, sono proprio gli eredi di quella tradizione neofascista che è all’origine del negazionismo nella sua accezione propria.
Un vero e proprio rovesciamento dei ruoli, e della realtà, che qualifica la ricorrenza del 10 febbraio come vera e propria parodia del discorso storiografico sui crimini nazi-fascisti.
Il Giorno del ricordo, in effetti, è stato istituito per essere una parodia del Giorno della memoria del 27 gennaio, in una data scelta per essere il più possibile vicina (e posteriore) ad esso.
Ogni 10 febbraio, i moduli retorici del Giorno della memoria sono imitati e banalizzati (ulteriormente), in un contesto che ribalta completamente di senso la memoria della Seconda Guerra Mondiale, presentando una storia in cui gli aggressori nazi-fascisti sono vittime, gli aggrediti (in questo caso il popolo jugoslavo) i carnefici. A questo scopo, la “più complessa vicenda del confine orientale” viene completamente cancellata dal “Giorno del ricordo”: nessuno parla dell’occupazione italiana in Jugoslavia, dei massacri di civili operati dall’Esercito italiano su ordine firmato dal generale Roatta, dei campi di concentramento in cui gli occupanti italiani rinchiusero decine di migliaia di persone, di tutti quei fatti senza i quali la violenza delle foibe semplicemente risulta incomprensibile. Per questo, il Giorno del ricordo è una irrimediabile mistificazione storica.
D’altronde, la ricorrenza scelta, ovvero la data della firma del Trattato di Parigi fra l’Italia e le potenze alleate, con cui si metteva ufficialmente fine alle ostilità della guerra mondiale, oltre a cadere strategicamente vicino al 27 gennaio, ha un chiarissimo sottotesto neofascista e revanscista: significando il 10 febbraio come giorno di lutto e memoria vitimistica, si mette implicitamente in discussione i trattati firmati a seguito della Seconda Guerra Mondiale, e con essi la sconfitta dello Stato monarchico e fascista che quella guerra aveva dichiarato. La parodia del Giorno della Memoria, ne è anche una implicita sconfessione, puntata come è a riabilitare il nazionalismo italiano, il fascismo e le sue aggressioni imperialiste, attraverso una narrazione storica edulcorata e vittimista.
Il ricordo del 10 febbraio, che pure si ammanta di una stantìa retorica umanitaria e universale, è terribilmente selettivo ed escludente, tutto centrato sull’italianità delle vittime. L’enfasi sulle vittime mette in moto tutto l’armamentario retorico del paradigma vittimario, nascondendo ogni discorso critico storiografico dietro l’esposizione pornografica del corpo della vittima, e l’obbligo morale di empatia e riconoscimento che questo impone. L’enfasi sull’italianità chiarisce subito che tra le vittime esiste un grado gerarchico e di vicinanza dettato dall’appartenenza nazionale, per cui certe vittime sono più vittime di altre. A sparire, e venire negate, sono le vittime dell’occupazione italiana della Jugoslavia, le vittime delle guerre fascista: per questo il 10 febbraio è una ricorrenza eminentemente negazionista.
D’altra parte, è proprio del discorso sulla vittima cancellare ogni possibilità di dibattito storiografico, schiacciandolo sul riconoscimento empatico con la vittima, sulla scelta delle vittime nelle quali riconoscersi, e la contrapposizione agonistica tra vittime differenti. La Storia è ridotta a una pesa di mucchi di corpi martoriati sulla bilancia truccata del giudizio politico del momento, e all’agiografia di qualche martire esemplare. L’inclusività di nuove vittime nella memorialistica ufficiale, non smuoverebbe di un passo la sostanziale vuotezza di un discorso che sacrifica la comprensione storica in favore della manipolazione emotiva. Aggiungerebbe solo un nuovo target al mercato identitario dell’autocompiacimento vittimistico. Esattamente quello che si è fatto introducendo il Giorno del ricordo, ricorrenza costruita ad hoc per soddisfare il target dei vari eredi della tradizione fascista e irredentista.
Attraverso il dominio del paradigma vittimario, la moltiplicazione delle vittime nelle quali riconoscersi in via esclusiva, si è ormai steso un velo uniformante sulla storia del novecento, trasfigurata in una grottesca parata di orrori e atavici odi senza senso, che si presume finalmente superati dall’odierna civiltà dei consumi. Così, si finisce per espungere dal discorso memorialistico ogni reale comprensione dei fatti ricordati, aprendo lo spazio a qualsiasi uso politico della Storia. Le responsabilità storiche del fascismo sono edulcorate o cancellate, la natura guerrafondaia e genocida dell’ideologia nazifascista è negata, attraverso il tentativo di abbassare tutti gli oppositori allo stesso livello di abiezione morale. Per farlo, è necessario forzare i fatti storici, costruire narrazioni di comodo, focalizzare l’attenzione su singoli episodi opportunamente decontestualizzati, negare spudoratamente verità storiche consolidate.
La vergogna del Giorno del ricordo è tutta qui. Nella continuità ideale tra odierne istituzioni repubblicane e istituzioni fasciste che i richiami generici a una “italianità ferita” costruiscono in questa giornata, qualificando il 25 aprile come semplice equivoco storico. In uno Stato che, dentro questa continuità ideale, ritiene di avere il diritto di rivendicare un ruolo di vittima per una guerra e dei massacri che ha scatenato lui, riesumando la retorica vittimistica nazionalista che è stata alla base di tutte le sue avventure criminali sul palcoscenico internazionale, dalle guerre di aggressione coloniale alle guerre mondiali, e perpetuando la pura negazione storica dei propri numerosi crimini. È emblematico di questa negazione il fatto che il 10 febbraio sia anche anniversario dell’inizio della battaglia dell’Amba Aradan del 1936, durante la criminale guerra di aggressione coloniale italiana in Etiopia, battaglia in cui tra l’altro l’aviazione italiana fece abbondante uso di armi chimiche, già allora vietate dalle convenzioni internazionali.
Nota bibliografica:
Sulla mistificazione storica ripetuta ogni 10 febbraio, si veda oltre a E. Gobetti, E allora le foibe?, Laterza, Bari-Roma, 2021, il lavoro di documentazione prodotto negli anni dal collettivo Nicoletta Bourbaki: https://www.internazionale.it/notizie/nicoletta-bourbaki/2017/02/10/foibe; https://www.wumingfoundation.com/giap/tag/nicoletta-bourbaki/.
Per un quadro dei crimini italiani nei Balcani si veda D. Conti, L’occupazione italiana dei Balcani: crimini di guerra e mito della brava gente, 1940-1943, Odradek, Roma, 2008 e G. Oliva, “Si ammazza troppo poco”: I crimini di guerra italiani 1940-1943, Mondadori, Milano, 2006.
Sul paradigma vittimario, si veda oltre a G. De Luna, La repubblica del dolore, Feltrinelli, Milano, 2011; anche D. Giglioli, Critica della vittima, Nottetempo, 2014.
Sulla lunga stagione delle aggressioni coloniali italiane in Etiopia, lo studio fondamentale è quello di A. Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, 4 volumi, Laterza, Roma-Bari, 1976-1984.
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