A.S.C.E.

Associazione Sarda Contro l'Emarginazione

Senza pagare pegno. La lotta dei rom di Monserrato per il riconoscimento dei diritti

Oggi si celebra la data del 2 agosto, ricorrenza che ripercorre la storia del Porrajmos e dello sterminio dei Rom e Sinti nel Zigeunenlager nel 1944, e che l’UNAR si appresta a ricordare tramite un evento di respiro nazionale e internazionale che ripercorre la storia dell’antiziganismo.

Solo che, purtroppo, l’antiziganismo non può essere ancora archiviato unicamente come percorso di memoria storica e vicenda passata degna di essere ripercorsa e ricordata, perché coinvolge ancora oggi troppe persone Rom e Sinte che sono costrette a sopportare condizioni di vita estreme in Italia e anche in Sardegna.

Infatti, proprio in questi giorni, succede a Monserrato comune dell’hinterland cagliaritano, che i cittadini della comunità rom locale debbano ancora lottare per vedere riconosciuti dei diritti essenziali da parte dell’amministrazione.

La comunità khorakhané vive a Monserrato sin dai primi anni Novanta, quando le relazioni con la comunità maggioritaria sono diventate un buon esempio di integrazione e collaborazione tra romà e gagé grazie in particolare all’implementazione di un percorso di accoglienza scolastica fortemente voluto e sostenuto dagli abitanti del campo e da una dirigente scolastica propositiva e attenta (https://www.kethane.org/post/rom-e-sinti-e-accesso-all-istruzione-pubblica?fbclid=IwAR07UrlvTLmZq9mkG44ahd32xkywZmI2n_jkSN-vsqg1moSb05-DhyaoMHw).

Qui nel 2012 è stato inaugurato il primo monumento in Italia dedicato alle vittime rom e sinte dello sterminio nazi-fascista.

E oggi?

Oggi succede che, nonostante questo tempo e queste tracce, gli abitanti rom monserratini vengano ancora trattati come cittadini di serie B.

Il campo, sorto nei primi anni Duemila, rappresenta una piccola area recintata, solo parzialmente piantumata, dove sono presenti una decina di casupole, alcune parzialmente autocostruite, alcune allestite dal comune come prefabbricati. Ci vivono una cinquantina di persone. Il sequestro giudiziario della parte prospiciente il campo dove le famiglie accumulavano i materiali di lavoro dello smistamento del ferro o degli articoli recuperati e da rivendere, ha costretto le famiglie a spostare i materiali all’interno, tra le casette, dove gli spazi sono diventati sempre meno vivibili.

Succede che da tre anni la fogna del campo sia fuori uso: dal centro dello spazio condiviso scorre un fiume di liquami che ha prima invaso uno degli ingressi e ora si riversa copioso sulla strada di accesso fino a raggiungere un tombino al centro della stessa. Per entrare al campo bisogna salire su una passerella che permette di superare il guado delle acqua di scarico. Da tre anni le famiglie chiedono al Comune di intervenire per il ripristino della fogna e delle condizioni igieniche.

Un unico intervento tecnico superficiale non ha risolto la situazione e una nuova richiesta di intervento inoltrata anche tramite la nostra associazione durante lo scorso mese di febbraio 2020 non ha ottenuto risposta alcuna.

Ma questa non è l’unica situazione di criticità: le famiglie del campo non hanno accesso a contatori singoli per la registrazione delle utenze e questo semplicemente perché, ancora oggi, dopo anni di regolare permanenza e assegnazione delle casupole, viene rifiutato ad alcuni di loro, in maniera illegittima, il rilascio di un documento o una dichiarazione che attesti le condizioni di legittimità dell’occupazione degli immobili, titolo indispensabile per ottenere l’allaccio di un contatore individuale dell’energia elettrica e per altre necessità burocratiche.

Infine, viene contestata la presenza e l’ospitalità di persone che il Comune considera non aventi titolo di permanenza al campo, pur in presenza di gravi motivi familiari.

Ci è stato riferito nei giorni scorsi che alcuni assessori e funzionarie comunali si sono presentati al campo per prendere visione della situazione ma non hanno fornito alcuna informazione rispetto al ripristino delle condizioni di vivibilità e, anzi, si sono limitati a ribadire in modo più o meno diretto la volontà che gli abitanti lascino la zona. Denunce e multe a pioggia sono lo strumento utilizzato per intimidire e indebolire le famiglie, che non cercano trattamenti di favore ma vorrebbero poter discutere le modalità per rendere vivibili gli spazi comuni e le proprie casette, nel riconoscimento delle necessità e possibilità di ciascuno di loro. Lasciare peggiorare gradualmente le cose senza discutere o provare almeno ad immaginare soluzioni differenti non può essere accettata come unica scelta istituzionale.

Dal nostro punto di vista, infatti, alimentare lo spettro dell’allontanamento per cause di forza maggiore e senza alternative, coperto da un uso strumentale della bandiera della “chiusura dei campi”, non può essere l’unica soluzione di fatto avanzata dall’amministrazione. Infatti nemmeno i fondi regionali messi a disposizione per l’inclusione abitativa delle famiglie rom sarde sono stati richiesti dall’amministrazione che ha scelto di non presentare alcuna proposta operativa di inclusione.

Nei fatti si tratta, da parte del Comune, di precludere l’unica attuale possibilità abitativa di queste famiglie senza pagare pegno, lasciando che le condizioni degenerino fino al punto di non ritorno e senza prendere impegni risolutivi.

Le richieste di ascolto delle famiglie, di discussione e confronto aperto con l’amministrazione, meritano più spazio di estemporanei blitz dove i diritti elementari delle persone non sono presi in considerazione, dove le necessità dei singoli vengono ridefinite in base a regolamenti antidemocratici e dove l’unico criterio riconosciuto è quello dell’inferiorizzazione di un’intera categoria di persone, il cui accesso ai diritti è sempre ridimensionato al dovere di lasciare agli altri l’ultima parola.

Si tratta di famiglie che, senza un aiuto istituzionale, non possono accedere ad altre soluzioni abitative. Famiglie che si trovano davanti il muro della povertà e del razzismo e che vorrebbero solo veder riconosciuto il loro diritto, come cittadini monserratini che parlano il campidanese come l’italiano e il romanès, a vivere in un’abitazione sana, con le condizioni minime di igiene e sicurezza.

Ma non vi preoccupate, anche questo agosto siamo a Monserrato, davanti alla statua che ricorda il Porrajmos a ricordare come l’antiziganismo di ieri arrivi fino ad oggi, come una volta ci fossero i campi dello sterminio e oggi rimangano i campi dell’esclusione e della disumanizzazione, come persone che desiderano vivere in salute con le proprie famiglie, lavorare e far parte della comunità e avere i diritti comuni debbano ancora lottare semplicemente per far sentire la propria voce, e come ancora oggi esistano posti dove i cittadini non sono tutti uguali.

Auspichiamo che l’amministrazione monserratina possa cambiare approccio a partire dall’apertura di un confronto aperto con le famiglie rom del territorio e, come A.S.C.E., rimaniamo a disposizione per supportare e collaborare a percorsi fattivi di inclusione e riconoscimento.


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