Per analizzare correttamente un qualsiasi fenomeno sociale, è necessario individuare il punto di osservazione più corrispondente allo scopo prefisso. In altri termini, al fine di valutare cosa è giusto o ingiusto fare, anche di fronte ad un’azione delittuosa, di rottura quindi delle regole della civile convivenza, dovremmo correttamente dichiarare qual’è il nostro principale motivo di interesse o, meglio, qual è l’ordine di priorità di più interessi.
Non ci sono d’aiuto i punti di vista condizionati da particolari sentimenti, come quelli umanamente comprensibili dei familiari della vittima, che spesso gridano vendetta o chiedono una mera punizione come giustizia, o maturano un semplice e banale perdono. Non ci aiuta il punto di vista del politicante, che sempre di più agisce per ragioni di propaganda, per mantenere la propria posizione di potere, e nemmeno quello di chi parla senza sapere nulla delle implicazioni, riducendo la sua percezione alla sola equazione errore-punizione.
A questo punto dovremmo tenere ben presente che i comportamenti del singolo e della comunità si influenzano reciprocamente. Ne consegue che una sana idea di buona giustizia dovrebbe tener conto del fatto che ogni atto delittuoso ha origini definibili, che chiamano in causa non soltanto il reo ma anche l’intera comunità che lo circonda: la famiglia, l’ambiente sociale, i modelli ed i valori proposti dalla società. Penso alle libere e infinite scorribande dei programmi televisivi di intrattenimento, che propongono modelli di vita e di superiorità sociale derivati dalla bellezza fisica, dalla ricchezza, dall’aggressività, dalla prevaricazione, considerate pregi e non difetti, meriti e non privilegi, dove anche le persone sono merce.
Se il nostro scopo è, come dovrebbe essere, quello di promuovere una società sana, democratica e libera, in una parola civile, allora dobbiamo partire da due semplici domande chiave: perché succedono certe cose? Come si può evitare che succedano ancora?
Sicuramente è più facile e sbrigativo arrenderci ai sentimenti di vendetta, punizione, negazione di una possibilità di riscatto, di una sola speranza di inversione di tendenza dall’egoismo alla socialità, dalla disperazione alla fiducia. Più difficile è trovare una pena equilibrata che parli di una possibile riparazione del danno, risarcimento della vittima, rieducazione e reinserimento sociale del reo. Abbiamo l’evidente necessità di contrastare l’attuale modello sociale che lascia tutti allo sbando, in primo luogo quel bambino che, pur essendo nato uguale a tutti gli altri bambini del mondo, NOI tutti, se pur con diversa responsabilità, abbiamo abbandonato al suo destino, escluso fin dal primo giorno di vita e fatto o lasciato diventare la “mela marcia”, il reo, il criminale, il delinquente.
In piccolo, è illuminante la storia del bullismo: abbiamo imparato a riconoscere che, in ordine di tempo, la prima vittima è il bullo il quale poi vittimizza altri. Ma poi mandiamo nelle scuole i poliziotti a spiegare cos’è un reato e ad insegnare astrattamente il senso della legalità come ubbidienza acritica e infine lasciare il loro numero di telefono.
Dovremmo invece chiamare esperti del comportamento, educatori e gli stessi genitori, meglio se del bullo e del bullizzato insieme, che chiedano al primo le ragioni del suo comportamento e spieghino infine che il bambino più debole (in quel momento) ha solo bisogno di aiuto, non di essere deriso, ha bisogno di essere protetto e non vessato. Trovo utile raccontare una piccola esperienza, protagonisti i miei speciali amici Simonetta e Massimiliano che, da genitori di una vittima, sono andati a casa del bullo e presentatisi in punta di piedi hanno ottenuto sia la collaborazione della madre, sia la disponibilità del bullo ad ascoltare. Hanno comunicato al bullo che il loro figlio era debole, aveva bisogno di aiuto, di amicizia, di solidarietà e che perciò non era giusto maltrattarlo. Hanno chiesto la comprensione del bullo e il bullo, Angelo, è diventato il protettore del loro figlio e oggi il suo migliore amico, grato infine ai suoi genitori per la lezione di vita e l’opportunità ricevute.
Di tutt’altro segno è la concezione prevalente nel dibattito pubblico attuale, fatta di continue invocazioni al “fare marcire in galera”, al “buttare via la chiave”, al “mandare ai lavori forzati”, che testimonia di una regressione collettiva del senso di umanità, della capacità di rispettare la persone, porsi nei panni dell’altro, anche quando i panni dell’altro sono macchiati della responsabilità di un delitto. La ferocia di questi costanti richiami alla punizione, all’annichilimento totale del “criminale”, non differisce in niente dalla ferocia che si esprime nel crimine di vendetta, se non per la vigliaccheria dell’esercitarsi attraverso la mano dello Stato. La continua invocazione di pene severissime, l’idea del carcere come mera discarica sociale, sono sottoprodotti di una società in disfacimento, incapace di empatia e di solidarietà, incapace di perdonare, di rivolgersi ai lati migliori dell’essere umano per consentirgli di migliorarsi, di salvarsi dalle proprie pulsioni distruttive e autodistruttive.
Lo vediamo chiaramente in questi giorni, nella levata di scudi collettiva delle istituzioni a difesa dell’ergastolo ostativo, nella più totale mancanza di riflessione sull’istituto dell’ergastolo stesso. Anche di fronte a precise sollecitazioni provenienti da tribunali di diritto internazionali, di fronte al massimo principio della difesa della dignità umana, non si riesce a chiedersi: quale giustizia vi è nel rinchiudere per sempre una persona in un carcere? Non è di giustizia che parlano le istituzioni, in questi giorni, ma solo di vendetta, di inutile accanimento, di mera esibizione spettacolare di quell’impegno che il mondo delle istituzioni non riesce a perseguire laddove sarebbe più utile, dentro la società, eradicando le cause sociali dei fenomeni criminali.
L’ergastolo non fa bene a nessuno: non alle vittime e non ai loro congiunti, che meritano di meglio che essere consegnati per una vita intera al ruolo di torvi guardiani del risentimento. Non serve minimamente al condannato, in quanto nega la funzione rieducativa che la pena dovrebbe avere, consegnandolo alla disperazione, o al risentimento, ma mai alla redenzione. Fa male alla società intera, perché la rinuncia alla visione riparativa e alla speranza di reinserimento è un esempio di inutile vigliaccheria. Vigliaccheria, perché si attribuisce ad una sola persona tutte le responsabilità del crimine, scartandola dal consesso umano come mela marcia, ignorando cosa l’ha fatta “guastare” (in verità o in apparenza) e ignorando le cause profonde che non sono nate in lui, e che riguardano tutta la società, tutti noialtri “onesti cittadini”. Inutile, perché niente di buono ne verrà dal seppellimento a vita di una persona dentro un carcere, privata di qualsiasi speranza di redenzione, e il meccanismo sociale che ha generato il suo crimine ne uscirà indenne, ignorato, se non rafforzato.
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