Introduzione
Questo articolo è un’anticipazione di un più corposo dossier che faremo uscire nelle prossime settimane, inteso ad analizzare la rappresentazione delle comunità romanì in Sardegna sulla stampa locale, attraverso l’analisi di un ampio corpus di articoli pubblicati in 5 testate locali tra il 2019 e il 2020. L’analisi che opereremo in piccolo qui, anticipa temi e risultati di quella ricerca. Con questa anticipazione, che è anche un aggiunta alla ricerca fatta con il materiale degli anni scorsi, possiamo già anticipare che non c’è alcun cambiamento in atto nelle modalità di rappresentazione della comunità romanì sarda.
Non che questo sia una novità: la stampa conferma e ripete costantemente da decenni gli stereotipi che alimentano l’antiziganismo. Quando le comunità rom che oggi popolano la Sardegna sono arrivate, durante gli anni ‘80, il serbatoio di preconcetti attraverso cui inquadrarne la presenza, giustificandone la feroce emarginazione sociale, era già a disposizione da molto tempo.
La stampa locale rimane un attore importante nel mantenimento degli stereotipi che legittimano il discorso discriminante contro il popolo romanì, in quanto porta le conferme che ne consentono la riproduzione, al massimo livello di vicinanza possibile tra legittimità delle fonti istituzionali e senso comune del pubblico.
Semmai, rispetto agli anni scorsi, 2020 compreso, si può notare una relativa caduta di interesse riguardo alle notizie a tema “rom”, che risponde alla generale caduta di interesse da parte delle istituzioni durante la pandemia. Nonostante ciò, le modalità discorsive dello stigma e della criminalizzazione rimangono comunque sempre a disposizione, come interpretazione naturale per tutto ciò che riguarda il popolo romanì.
Innanzitutto, la criminalizzazione dell’etnia passa per la totale cancellazione delle condizioni di emarginazione sociale nella quale essa viene mantenuta. Di questa emarginazione si evidenziano solo gli effetti più esteriori e truculenti, informati ad una retorica tutta incentrata sugli aspetti complementari della criminalità e del “degrado”. La discriminazione quotidiana di cui è oggetto il popolo romanì non fa notizia; quando fa notizia, per episodi particolarmente eclatanti, è completamente decontestualizzata rispetto alla situazione di pesantissima discriminazione istituzionale che caratterizza le politiche e l’agire quotidiano dell’amministrazione pubblica, a tutti i livelli.
Altri meccanismi di costruzione del discorso antiziganista nella stampa locale, desumibili chiaramente dagli articoli usciti questa estate, li vedremo nei prossimi paragrafi.
Il linguaggio discriminante
Possiamo notare tutta una serie di elementi che rendono la rappresentazione dei rom discriminante a partire dal linguaggio utilizzato, sin dai titoli degli articoli, e poi nel corpo del testo.
Uno degli elementi più evidenti del linguaggio discriminatorio è la costante utilizzazione dell’etnonimo “rom”, talora con una squillante maiuscola “Rom”; dello pseudoetnonimo “nomadi”, e la definizione di qualsiasi insediamento come “campo”.
L’uso costante di questi tre termini, nella titolazione e negli articoli di cronaca inerenti la comunità romanì, riafferma la presenza di quella alterità collettiva che è già riprodotta quotidianamente dalla ghettizzazione etnica e dalla diffusione del pregiudizio antizigano. Il nome collettivo richiama pragmaticamente una responsabilità collettiva.
Nelle Linee guida per l’applicazione della Carta di Roma, carta che è un set di regole vincolanti inserito nel Testo unico dei doveri del giornalista, viene chiaramente scritto di evitare la rappresentazione delle appartenenze etniche, quando non strettamente necessario alla comprensione della notizia, specialmente quando si parla di fatti di cronaca nera, perché in questo modo “si favorirebbe l’associazione automatica nel lettore tra nazionalità e fatto criminoso” (si veda p.31). Per definire questo tipo di abuso giornalistico, si parla di “etnicizzazione” delle notizie. Con il popolo romanì, l’etnicizzazione della notizia è una costante.
La persistenza dell’uso dello pseudoetnonimo “nomadi”, apre poi a interpretazioni falsificanti e discriminanti delle condizioni di insediamento dei rom che costituisce in sé e per sé un grave elemento di distorsione dell’informazione. Come ben ricordano sempre le Linee guida per l’applicazione della Carta di Roma, a pagina 24:
NOMADI: Il maggior stereotipo, che ha per altro condotto alla creazione di politiche istituzionali scorrette, è quello relativo al nomadismo con la creazione, appunto, dei “campi nomadi”. Spesso capita che la “teoria del nomadismo” venga usata ancora oggi al fine di fornire una forma di legittimazione culturale alla marginalizzazione di rom e sinti all’interno dei campi. Un effetto perverso di questo uso scorretto è la derivazione “campi nomadi”, che fa pensare a luoghi adatti a gruppi umani che si spostano continuamente e quindi a una forma di insediamento tipica di quelle popolazioni e in qualche modo necessaria. Non è così. Solo una piccola parte dei sinti e dei rom residenti in Italia (il 3%) non è sedentaria, e perlopiù per via dell’occupazione in lavori stagionali. Parlare di nomadi e campi nomadi è quindi improprio e fuorviante, ha esiti discriminatori nella percezione comune e conferma una serie di pregiudizi diffusi in particolare nella società italiana. Al posto di “campi nomadi”, “villaggi attrezzati”, “villaggi della solidarietà” ecc. è più corretto utilizzare insediamenti (o baraccopoli) formali e informali – contribuendo così a portare l’attenzione sul vero problema, ovvero l’emergenza abitativa, non il nomadismo.
La criminalizzazione dell’insediamento
Il pregiudizio sul nomadismo, come giustamente scritto nelle Linee Guida per l’applicazione della Carta di Roma citate precedentemente, è stato la base per la politica fallimentare dei campi rom, veri propri ghetti etnici che, su intimazione dell’Unione Europea, l’Italia dovrebbe avere già chiuso da diversi anni.
Nella perpetuazione dello stereotipo a mezzo stampa, il campo è il correlato semantico più ovvio del nomade: laddove risiede un rom, a prescindere da quale sia la natura della sua abitazione, abbiamo la associazione continua tra la parola “campo”, e parole come “rom” o “nomadi”, ma anche “abusivo”. Spesso la connessione è talmente implicita che non c’è bisogno di dire altro che “campo”: l’insediamento rom e il campo sono considerati una cosa sola.
Che il romanì, al pari di chiunque altro, possa vivere in casa, non è contemplato. D’altra parte, ovunque il romanì si insedii, la reazione pubblica e mediatica è quella dell’allarme, della denuncia, dello stigma o quantomeno della problematizzazione, che ha come movente implicito, e come reazione politica più o meno esplicita, la necessità di cacciarlo via.
Il nomadismo, lungi dall’essere una “tradizione culturale” del popolo romanì, è il portato di una storia secolare di persecuzioni che si perpetua quotidianamente. La nozione del “campo” è la prosecuzione naturale di questa storia: al romanì non si riconosce la possibilità di un insediamento definitivo sul territorio, esso è destinato a rimanere accampato sino a quando le autorità ne decreteranno un nuovo, ennesimo sgombero.
Alla questione dell’insediamento si somma e si intreccia la questione del lavoro. Le condizioni peculiari del settore economico cui sono relegati i rom sardi (quello del recupero dei materiali metallici), viene sempre completamente tolta dal discorso riguardante le condizioni degli insediamenti. La banale questione che emarginazione lavorativa ed emarginazione abitativa, insieme, producono le condizioni sufficienti e necessarie per la generazione di condizioni abitative precarie, igienicamente non soddisfacenti, legate a occupazioni altrettanto precarie e situate lungo il crinale tra economia informale ed illegale, viene esclusa da qualunque discorso su “i campi”. Il rom, nella migliore delle ipotesi, è ritenuto un selvaggio da rieducare, nella peggiore un criminale ineducabile.
Nella cronaca quotidiana, il rom è il produttore di spazzatura, quasi la secernesse biologicamente. Viene così rimosso costantemente il ruolo subordinato, di ultimo e più debole anello della catena, che ricopre nella economia sommersa dello smaltimento più o meno lecito di materiali: materiali che sono prodotti dell’economia locale della popolazione maggioritaria, non sono inventati dai rom. Lo stigma e l’associazione dei rom con le discariche abusive (Popoli delle discariche era il titolo di uno dei primi libri, scritto da Leonardo Piasere, che in Italia denunciava l’assurda condizione dei rom relegati nei ghetti etnici, oramai 30 anni fa), è poi un potente incentivo per tutti coloro che vogliono trovare uno spazio pratico e sicuro nel quale lasciare la propria spazzatura: la colpa, insieme al rischio igienico-sanitario, ricadrà immancabilmente sui rom.
Il “campo”, in questo contesto di totale decontestualizzazione della emarginazione sociale dei rom, e dunque di deresponsabilizzazione collettiva verso di essa, risalta nella cronaca come mera riserva di caccia per i “blitz” delle forze dell’ordine, come nell’articolo dell’Unione Sarda del 3 luglio “Blitz nel campo rom, due denunce”.
In questi articoli possiamo notare innanzitutto la naturalizzazione di un comportamento poliziesco eminentemente razzista, sebbene di un razzismo subordinato all’esistenza stessa dei ghetti etnici per rom, che è quello delle retate etniche nei loro luoghi di insediamento.
La “’imponente attività di controllo nei tre maggiori insediamenti di gruppi rom presenti in città e frazioni” attuata dalle forze dell’ordine a Carbonia, descritta come fatto normale dall’Unione Sarda, è infatti espressione di una attenzione particolare, eminentemente razzista, che rende i “campi” spazi nei quali non è necessario procedere alle sottigliezze e ai distinguo che si operano verso la comune cittadinanza. Nei campi si può procedere con operazioni casuali, fatte senza una precisa necessità di indagine, facendo affidamento sul fatto che, stanti gli ovvi profili di emarginazione che abbiamo sottolineato nei paragrafi precedenti, qualcosa si troverà (cosa peraltro spesso non vera). Operazioni del genere, effettuate in un qualsiasi quartiere residenziale, anche periferico, verrebbero considerate puri e semplici abusi.
La cronaca conseguente, fa ricadere la responsabilità di fatti per cui vengono denunciate poche persone (quando ne vengono denunciate) su tutta l’intera comunità. Per i rom, a partire dall’azione delle forze dell’ordine, fedelmente e acriticamente riportata nella cronaca, si stabilisce così un principio di colpa collettiva.
La chiusura dei campi senza un reale progetto di inclusione sociale e superamento dello stigma, della discriminazione e della emarginazione, emerge invece come non detto della questione del campo di Sa Corroncedda, riemersa, come periodicamente accade, nelle cronache locali estive dell’area di Olbia. Mentre un discorso pubblico serio dovrebbe parlare della mancanza di volontà e incapacità istituzionale italiana a superare il terribile modello dei ghetti etnici per rom, la cornice nella quale è inquadrata la discussione rimane quella della problematizzazione dell’insediamento dei rom di per sé stesso. L’enfasi giornalistica sulla presenza di “ben” 9 insediamenti rom intorno ad Olbia, ovviamente “abusivi”, l’enfasi del gruppo consiliare di opposizione “Liberi e Uniti”, che ha risollevato la questione, sulla quantificazione, il controllo, l’esercizio di una disciplina sulle persone qui residenti, rimanda sempre ad un contesto di inferiorizzazione delle comunità romanì.
In questo contesto, atti dovuti dell’amministrazione comunale come la registrazione della residenza e la raccolta dei rifiuti, vengono presentati addirittura come atti criminali, mentre la logica di fondo, rimane quella dello sgombero dell’insediamento: “Un atto criminale far vivere delle famiglie, con bambini piccoli su quel terreno per il quale, già nel 2019, c’era stato un ordine di sgombero. Il Comune ha invece dato la residenza a quelle persone e garantisce la raccolta rifiuti a domicilio”.
La motivazione per questa presa di posizione sarebbe il rischio idrogeologico, ma sappiamo bene che a Olbia questo non riguarda certo i soli insediamenti romanì, anzi.
È proprio l’incapacità di leggere la questione dell’insediamento delle comunità romanì all’interno di una generale questione abitativa, che colpisce egualmente le comunità non romanì, a produrre un discorso intrinsecamente razzista, a prescindere dalle intenzioni.
La generale mancanza di una vera strategia statale, e di un reale impegno delle istituzioni verso il superamento della segregazione etnica del popolo romanì, si afferma in un discorso tutto interno alla politica, che usa le comunità romanì come elemento di mobilitazione politica attraverso le cornici discorsive del degrado e della illegalità, ponendo la questione in termini esclusivamente repressivi. Quando si esce dalla generale indifferenza verso le comunità romanì, la mentalità repressiva è infatti il trait d’union della discussione politica: anche quando si invoca l’intervento dei servizi sociali piuttosto che quello della polizia, rimarcando l’unica differenza di approccio tra “sinistra” e “destra”, si sta comunque partendo da un approccio incapace di riconoscere ai rom una soggettività e una agentività, incapace di riconoscere la responsabilità delle istituzioni che quotidianamente confermano e riproducono l’emarginazione del popolo romanì dalla società dei cittadini “normali”, a partire proprio da servizi sociali e forze dell’ordine. Non ultimi, tra queste istituzioni, vi sono anche i media locali.
In generale, le problematiche cui sono soggette le comunità romanì: problema abitativo, problema occupazionale, dispersione scolastica, emarginazione sociale, sono problematiche che riguardano anche ampie parti del resto della popolazione. L’esclusivismo etnico con cui si trattano le questioni inerenti il popolo romanì come questioni a parte, non fa che perpetuare la sua segregazione razziale. D’altra parte, è la mancanza di volontà politica a trovare in generale soluzioni a questi annosi problemi sociali, a fare sì che si preferisca la mistificazione del discorso etnicizzante, separando e mettendo in concorrenza i bisogni di romanì, migranti e cittadini italiani, in un contesto di false soluzioni sempre parziali, e perlopiù minimali.
La criminalizzazione dell’etnia
La totale mancanza di contestualizzazione della condizione in cui sono relegate le comunità romanì nella società italiana, la continua utilizzazione del nome collettivo “rom”, “sinti”, dello pseudonimo “nomadi”, la separazione sociale che le contraddistingue, costituiscono le condizioni perfette per la costruzione di una identità criminale che si generalizza alla totalità del popolo romanì.
D’altra parte, la totale mancanza di conoscimento e riconoscimento, di empatia, di spazi di dialogo e confronto, tra popolazione maggioritaria e popolo romanì, sancisce già nella quotidianità quella estraneità che favorisce il riconoscimento collettivo a scapito di quello individuale. Nel senso comune del bravo cittadino “normale”, il rom come individuo non esiste: esistono “i” rom. Su questo senso comune si basa la cronaca quotidiana. Si genera così un circolo vizioso, che conferma costantemente lo stigma che circonda la figura collettiva, indistinta, stereotipata del rom.
Questa condizione di base, si esprime con chiarezza ogni estate attraverso le cronache che stabiliscono il nesso tra le attività di furto, specialmente in appartamento, e l’appartenenza etnica al popolo romanì. Questi articoli si distinguono per la superficialità, talora per le inesattezze, sempre per l’unicità della fonte, che è quella poliziesca.
In questo contesto, una buona parte della cronaca è quella che riguarda le attività preventive della polizia, in particolare attraverso la emanazione di fogli di via. Questi articoli risultano particolarmente critici, perché utilizzando la fonte unica poliziesca, dimenticano di ricordare la natura eminentemente arbitraria e speculativa del provvedimento preventivo, e non si prendono minimamente la briga di verificare se le informazioni fornite dalla fonte poliziesca siano corrette.
Nella cronaca, le speculazioni degli ufficiali di polizia alla base di questi provvedimenti, che non corrispondono ad alcun reato specifico, vengono presentate come intrinsecamente corrette ed esenti da errore o pregiudizio. Ci si dimentica che avverso questi provvedimenti si può presentare ricorso, cosa che sappiamo in alcuni casi essere stata fatta, e ci si dimentica di riportare i casi in cui questi provvedimenti risultassero illegittimi.
Un caso interessante di superficialità e criminalizzazione dettata da un evidente pregiudizio, presente a partire dalla fonte poliziesca, è il caso evidenziato nelle cronache del 5 e 6 agosto, con titoli come “Cagliari, saccheggiava i cantieri edili: denunciato un 30enne” e “Allarme furti nelle aziende, recuperata nel campo rom refurtiva per 8mila euro”. Possiamo notare, nei due articoli, come le fonti inquirenti sostengano esplicitamente di avere “ipotizzato che gli autori, visto il “modus operandi”, potessero essere riconducibili a soggetti di etnia rom”. Notiamo però anche come il ritrovamento della refurtiva non corrisponda minimamente ad una prova di furto, e infatti la denuncia è per un reato di ricettazione, ovvero per la compravendita di materiale di provenienza illecita.
Il titolo degli articoli è dunque fuorviante, in quanto la persona denunciata non è accusata di furto, e questa accusa è sostenuta solo da una frase raccolta dalle fonti inquirenti, che suggerisce un certo pregiudizio razzista. Di furti in cantiere fatti da persone non rom nel cagliaritano, infatti, ne possiamo trovare in grande quantità anche solo nelle cronache della stessa stampa locale. L’acquisto di materiale a basso costo di provenienza incontrollata, d’altra parte, è un fatto comunissimo negli ampi circuiti dello scambio informale sui quali si regge la vita di innumerevoli persone, nel cagliaritano. Non si capisce dunque quale “modus operandi” dovrebbe distinguere i “soggetti di etnia rom” dalle altre persone che sopravvivono nelle ampie sacche di emarginazione sociale del cagliaritano.
A queste inesattezze, se ne aggiunge un’altra anche più grave, riguardante il luogo nel quale sarebbe stata rinvenuta questa refurtiva. La menzione del “campo nomadi di Monserrato”, lascia infatti intendere che si tratti dell’insediamento comunale in via dell’Aeronautica, aprendo lo spazio alla solita indiscriminata criminalizzazione dell’intera comunità residente. La menzione della località “Pezzu Mannu”, nel corpo degli articoli, può mettere in avviso solo le persone più attente. Per quasi tutti i lettori, l’identificazione risulta chiara.
Qui l’onnicomprensività del termine “campo rom” per qualsiasi insediamento di persone appartenenti al popolo romanì, raggiunge vette di assurdità, rendendo l’informazione completamente fuorviante. Infatti, in località “Pezzu Mannu” vi è, banalmente, solo la residenza della persona incriminata. Non un “campo”, con la sua evocazione dell’insediamento collettivo monoetnico in cui si vuole sia relegato il popolo romanì, ma una residenza privata.
Un ulteriore elemento di discriminazione è, chiaramente, quello degli articoli tratti da altre testate e riguardanti casi di cronaca locale avvenuti lontano dagli spazi di elezione dei quotidiani sardi, ma capaci di attirare l’attenzione attraverso la loro particolare conformità allo stereotipo razzista riguardante i rom. È questo il caso dell’articolo pubblicato su L’Unione Sarda online il 1° settembre, con titolo “Bimbo rom pieno di lividi si presenta in caserma: “Arrestate mia madre, mi picchia e mi costringe a rovistare tra i cassonetti”.
Come sempre in questi casi, l’attenzione è tutta sugli effetti “spettacolari” del disagio e dell’emarginazione sociale, senza mai andare a cercare le cause. L’enfasi evidente sulla appartenenza etnica, è poi un elemento fondamentale per il richiamo di pezzi giornalistici come questo. Gli stereotipi del caso sono presenti: il maltrattamento dell’infante, la mendicità coatta, e la loro evocazione a fianco dell’etnonimo “rom” serve chiaramente a sollecitare il bisogno di conferme in un pubblico già intriso di pregiudizi antiziganisti. Il loro interesse pubblico, invece, è totalmente nullo. Non sollecitano alcuna riflessione sulle cause sociali del contesto che rappresentano, non offrono alcuna prospettiva per un suo superamento. Sono pura pornografia della miseria, perdipiù alimentata dal bisogno di conferma del pregiudizio razzista.
Conclusioni
Quella che abbiamo offerto è una breve analisi di alcuni degli articoli usciti in questa estate sulla stampa locale sarda riguardanti il popolo romanì (una lista più ampia è in calce a questo articolo). Anche ad un’analisi del genere, saltano chiaramente all’occhio gli elementi di distorsione dell’informazione, l’antiziganismo talora strisciante, talora manifesto, che deforma la pubblica informazione quando si parla del popolo romanì. Questi elementi sono macroscopici. Una parte importante del pregiudizio razzista presente nella comunicazione giornalistica quotidiana, va certamente ascritta alle fonti istituzionali che alimentano la cronaca. Sotto questo aspetto, il ruolo ricoperto dalle amministrazioni pubbliche e dalle forze dell’ordine è certamente maggiore, preordinato rispetto a quello delle redazioni giornalistiche. Tuttavia, non possiamo che rilevare per l’ennesima volta come le redazioni giornalistiche vengano costantemente meno al proprio dovere di verifica delle fonti e di contestualizzazione corretta degli avvenimenti, quando si parla di categorie emarginate della popolazione. E purtroppo il popolo romanì rappresenta il non plus ultra tra le categorie emarginate.
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